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“Tra il dire e il fare: la realtà del cantiere”: l’#AIDIC Talks con Marco Paoluzzi (Technip Energies)

#AIDIC Talks è l’evento che, realizzato sotto forma di intervista, consente di incontrare esponenti dell’Industria Chimica Italiana ed eccellenze del settore, di conoscere il loro lavoro, ascoltare i loro consigli e soddisfare le proprie curiosità̀. Questo nuovo format rimane fedele agli obiettivi del Gruppo Giovani, ovvero riunire i giovani e dare loro l’opportunità̀ di arricchire e migliorare la propria formazione umana e professionale.

Il protagonista dell’ultimo incontro è stato Marco Paoluzzi, ingegnere edile, con un Dottorato di Ricerca sui sistemi di gestione. Diverse vicende lo hanno portato nel contesto industriale: dopo essere stato cinque anni con la Micron Technology, curando la parte infrastrutturale degli stabilimenti di produzione di dispositivi a semiconduttori, è da circa tredici anni in Technip, nel settore costruzioni.

Il suo percorso in Technip è iniziato nella casa madre Technip Italy, dove ha seguito un progetto sul biodiesel a Rotterdam, un progetto sulle sabbie bituminose in Alberta e una progettazione preliminare in Kazakistan sul revamping di una raffineria. Oggi, è il responsabile del servizio di direzione lavori e dei cantieri della divisione italiana che si occupa, in collaborazione con il gruppo Snam Rete Gas, di tutto quello che riguarda il metano, dagli impianti di compressione allo stoccaggio e alle linee di trasporto. Inoltre, si occupa anche dei sistemi di gestione.

Abbiamo rivolto alcune domande a Marco Paoluzzi, per conoscere meglio “la realtà̀ del cantiere”, un mondo affascinante, ma ancora tutto da scoprire.

 

Il titolo del talk che ci ha suggerito è “Tra il dire e il fare: la realtà̀ del cantiere”. Può̀ spiegarci il motivo?

“Tra il dire e il fare” è un titolo che fa sorridere, ma allo stesso tempo vuole essere un po’ provocatorio. All’università̀ si parla principalmente di progettazione e non viene mai presa in considerazione l’ipotesi, che poi è quella reale, che tutto ciò̀ che viene studiato su carta va poi realizzato. L’attività̀ costruttiva è un percorso professionale molto importante anche per chi diventa meramente progettista e offre tantissimi spunti e molte possibilità̀ in diversi contesti. Per alcuni aspetti è anche un grande sacrificio, ma sicuramente molto formativo. Da qui viene il titolo “tra il dire e il fare”.

L’opportunità̀ di vivere il cantiere è arrivata un po’ per caso. Può̀ raccontarci come è accaduto?

Dopo aver concluso il dottorato di ricerca, il percorso di studi sembrava portarmi decisamente altrove. Per diversi motivi, mi sono trovato nel contesto industriale, nel settore ingegneristico. Lavorando negli stabilimenti produttivi e affiancando la produzione, inevitabilmente il cantiere mi ha chiamato. Venivo spesso contattato dai supervisori, ma anche dalle stesse imprese, per fornire loro maggiori dettagli sui lavori che stavo seguendo.

Gli aspetti pratici, come la gestione dello spazio e del materiale a disposizione, mi hanno fin da subito affascinato. Da quel momento in poi il cantiere ho “seguito” il cantiere e non l’ho più̀ abbandonato. È per me uno stimolo di creatività̀ e di “problem solving” quotidiano.

Quali sono le difficoltà che un giovane neolaureato in ingegneria chimica incontra nel cantiere? Quanto è difficile fare la loro formazione per poterli abituare a lavorare in questa nuova realtà̀?

Professionalmente penso che non sia molto diverso dall’impatto che trovereste nel lavorare in uno studio di progettazione oppure in un team di progettazione. Il mondo del lavoro è molto diverso rispetto agli studi, soprattutto per la nostra estrazione, diciamo latina, in cui il mondo accademico è molto “accademico” e poco empirico.

Lavorando, ad esempio, in uno studio progettazione, ci si trova a ragionare tra colleghi che parlano tutti la stessa lingua e sono lì per lo stesso motivo. Il contesto lavorativo in un cantiere è molto più̀ variegato e ci si trova sempre a relazionare con figure diverse, dall’operaio al professionista.

A livello di cantiere, quali sono i fattori che maggiormente incidono sull’efficienza operativa?

Quello che esce dal processo di ingegneria poi deve essere visto anche nella sua realizzabilità̀. Quando si fa progettazione bisogna già̀ guardare al cantiere.

Ricordo ancora le parole di un mio professore: “Quando vi troverete di fronte ad un disegno delle armature, non dovete approssimare la lunghezza dei ferri al centimetro, perché́ chi li taglia usa un frullino e una stecca, si trova su un bancone di legno, in mezzo alla polvere e in mezzo al cantiere. Non perdete tempo: le misure verranno poi approssimate come fanno più̀ comodo all’operaio”. In un cantiere non ci si può̀ presentare con una lista del materiale dove ci sono 15, 20, 25 diametri di tubazioni differenti, perché́ ciò̀ significherebbe ritrovarsi a gestire piccole quantità̀ di tanti elementi diversi.

Ci sono altri due aspetti molto importanti che in università̀ non vengono trattati: i costi e il tempo. Non abbiamo un tempo infinito per fare le cose e il cliente non ha risorse infinite per realizzarle. Ogni cosa deve avvenire senza grosse interruzioni e tutto quello che crea ostacoli è un rischio, finché non viene trovata una soluzione.

Se, ad esempio, i camion o le gru, che servono per movimentare i pezzi, non passano sotto il passaggio a livello della ferrovia, fuori dall’impianto, si rischia di stare fermi per mesi. Occorre, quindi, prendere in considerazione una serie di aspetti pratici ma, allo stesso tempo, importantissimi. Ricordo il progetto sulle sabbie bituminose, nel nord dell’Alberta, zona molto remota, in cui le condizioni meteo erano tali che si cercava di limitare il lavoro “in loco”. Decidemmo di adottare, come soluzione, una modularizzazione. L’impianto fu spezzettato e costruito altrove in pezzi più̀ piccoli (parliamo comunque di centinaia di tonnellate) e poi portato nel sito di installazione.

L’impresa fece un viaggio di circa duemila chilometri in macchina, dall’ officina fino al cantiere, fotografando ogni cavalcavia, ogni passaggio aereo di cavi elettrici e di telecomunicazione e ogni incrocio, per essere sicuri che quel pezzo potesse arrivare dove era destinato. Inoltre, fu costruito in  officina, in modo tale che, messo sul camion, una volta giunto a destinazione, fosse già̀ posizionato nel modo corretto. Tutti questi aspetti, meramente costruttivi, che vengono poco presi in considerazione in fase di progettazione, hanno un impatto enorme e radicale sull’efficienza del cantiere e della costruzione.

Come è strutturata l’organizzazione all’interno di un cantiere?

Un cantiere tipico del nostro ambito è suddiviso in tre staff: il cliente, la “supervisione” in senso lato, ovvero coloro che coordinano la costruzione, e l’impresa. Noi ci poniamo nel secondo, ovvero nello staff del cosiddetto “General Contractor”. All’interno di un cantiere troviamo il “Site Manager”, che è il responsabile ultimo di tutta l’attività̀: è colui che detta i tempi e coordina le attività̀ dell’impresa e il lavoro dei suoi colleghi.  Spesso, nei cantieri molto grand, tale figura prende il nome di “Site Director”.

Ricordo che in un cantiere molto grande in Arabia Saudita lo staff del “Site Director” constava di circa 500 persone. Anche i cantieri per cui lavoro ora hanno uno staff di 20-25 supervisori, cioè̀ di persone che coordinano le attività̀ dell’impresa. Tra i vari settori che fanno capo al “Site Manager” c’è quello puramente di costruzione, al cui vertice troviamo il “Construction Manager”, che ha il compito di coordinare il cantiere vero e proprio. Sotto tale figura, c’è tutta un’organizzazione che viene creata in funzione della realtà̀ del posto, divisa per discipline e per aree: in essa possiamo trovare i supervisori civili, meccanici, elettro-strumentali ma anche figure che si occupano di varie unità di processo oppure di strutture logistiche ecc.

In questa grande organizzazione ci sono anche le “funzioni di supporto”, ad esempio i magazzinieri, che si occupano della gestione dei materiali in ingresso e in uscita e portano il conto del materiale prelevato dall’ impresa e degli sfridi, cioè̀ di quello che è avanzato.

Troviamo anche il gruppo che si occupa del controllo qualità̀. Probabilmente, quest’ultimo è l’ambito in cui è cambiato di più̀ il contesto. Quando si fa un progetto bisogna dire anche cosa ci si aspetta in termini di resa e di qualità̀. Per ogni disciplina c’è tutta una serie di controlli per verificare che quello che è stato realizzato è conforme alle specifiche.

Un altro aspetto da considerare è la salute e la sicurezza dei lavoratori. È un tema sempre più̀ importante, dal momento che è cambiata negli anni la sensibilità̀ delle imprese e la percezione da parte del contesto civile. Dieci anni fa, in un cantiere molto grande, che ci fosse un morto o anche più̀ di uno, veniva quasi accettato come un danno collaterale, un fatto fisiologico, purtroppo! Ad oggi non è così: infatti, c’è tutta una serie di ragioni etiche e di business per cui la sicurezza è diventata veramente molto importante.

Quale tipo di rapporto lavorativo la lega ai suoi colleghi ingegneri chimici e quali informazioni vi scambiate?

Gli ingegneri chimici sono principalmente processisti. In seguito, con l’esperienza, alcuni di loro, evolvono verso ruoli di coordinamento, ricoprendo la carica di “project manager”.

Ci tengo, però, a citare una figura professionale poco conosciuta, ma che offre numerose possibilità̀ di carriera, anche superiori a quelle del processista, ovvero l’ingegnere di “pre-commissioning, commissioning e start up”. All’interno della dinamica del cantiere, infatti, una volta completata la sua costruzione (mechanical completion), è necessario procedere con l’avviamento dell’impianto e il successivo raggiungimento delle performance richieste. È proprio in questa fase che entra in gioco il team di “commissioning e start up”, costituito principalmente da ingegneri chimici, in quanto risulta necessario coniugare le competenze legate alla parte costruttiva dell’impianto con quelle di processo.

Prima ha accennato ad un aspetto molto importante ovvero la sicurezza. Le norme di sicurezza, necessarie alla prevenzione di incidenti sui luoghi di lavoro, richiedono procedure specifiche. Come lo si raggiunge l’equilibrio tra produttività e sicurezza?

Questo è davvero un punto fondamentale, in quanto racchiude l’obiezione principale che ci viene rivolta dalle imprese. In realtà̀, dando per scontata l’implicazione etica conseguente ad un incidente, penso che la cosa migliore sia sempre quella di dedicare alla sicurezza il tempo necessario, poiché́ gli effetti di un incidente generano un impatto enorme.

Negli ultimi giorni ci sono giunte notizie di infortuni avvenuti sul posto di lavoro che hanno destato molto scalpore. Ritengo che, se le norme di sicurezza richieste entrassero a far parte del comportamento del singolo, non avrebbero tutto questo impatto sull’efficienza produttiva. Inoltre, credo che le precauzioni, pur richiedendo un po’ di tempo per essere messe in pratica, consentano alle persone di muoversi con maggiore libertà e tranquillità̀ all’interno del luogo di lavoro.

Per concludere, sono convinto che nell’economia globale il rispetto delle norme non causi inefficienza. 

Quali sono i principali clienti della sua azienda? Che tipo di impianti gestite?

Nella divisione in cui mi trovo io, Technip direzioni lavori, il cliente principale è la holding gruppo Snam. In particolare, Snam Rete Gas, che si occupa del trasporto, Stogit che gestisce lo stoccaggio del gas naturale e GNL Italia che opera la rigassificazione del gas naturale liquefatto. In passato abbiamo lavorato anche con il TAP (Trans Adriatic Pipeline), la nota pipeline di metano che dall’Azerbaigian arriva nel Salento. In generale, operiamo principalmente nel settore dell’Oil & Gas.

A livello di casa madre, Technip lavora su una scala di investimenti più̀ grande: la clientela è costituita dai player mondiali dell’energia come SOCAR, ENI, Total e Saudi Aramco.

 

Abbiamo parlato molto della parte costruttiva, pratica del cantiere, però, lei riveste anche il ruolo di responsabile dei sistemi di gestione (QHSE manager). Qual è il percorso che l’ha preparata per questa posizione di impronta manageriale?

Devo dire che anche questo percorso rappresenta una novità̀ e che, dal punto di vista universitario, si affronti solo in alcune specializzazioni di ingegneria gestionale; generalmente si scopre lavorando. La nostra azienda investe molto nella salute e sicurezza dei propri lavoratori e di quelli delle imprese. Questo fa sì che, chiunque abbia fatto esperienza di cantiere presenti un kno-how di salute e sicurezza che gli consente di rivestire questa carica (QHSE manager). Tra i nostri obblighi aziendali a prescindere della carica ricoperta, c’è il monitoraggio della salute e della sicurezza attraverso una serie di processi. Questo conferisce a me e ai miei colleghi un livello di formazione, in questo ambito, molto forte. In virtù̀ di ciò̀, non è solo il QHSE manager che si occupa di fare i sopralluoghi e le ispezioni ma siamo tutti tenuti a farle. Si può̀ dire, quindi, che l’attività̀ di cantiere sia stata il principio della mia formazione in questo ambito, in quanto porta con sé la tutela della salute e della sicurezza. Successivamente, attraverso lo studio dei sistemi di gestione (ISO45000, ISO14000), sono riuscito a sistematizzare tutte quelle conoscenze pratiche che avevo acquisito sul campo. Infine, ho completato il percorso con un master sui sistemi di gestione, formalizzando questa competenza.

Quanto detto in precedenza per il team di “commissioning e start up” vale anche in questo caso; purtroppo, la metodologia QHSE viene trascurata in ambito universitario, ma offre molte opportunità̀ lavorative anche per gli ingegneri chimici.

Abbiamo più̀ volte toccato il tema dell’università̀. A tal proposito, l’università̀ italiana viene spesso accusata di essere molto teorica e poco pratica rispetto a quelle di matrice anglosassone. Quali proposte avanzerebbe, in ambito ingegneristico, per risolvere questo problema e far sì che i neolaureati siano più̀ pronti ad affrontare la realtà̀ del cantiere?

Probabilmente darò̀ una delusione a qualcuno, ma io apprezzo molto il fatto che l’università̀ italiana abbia una base accademica forte. Ritengo, infatti, che questa attribuisca una maggiore flessibilità̀ mentale, la quale risulta incomparabile con la formazione empirica di stampo anglosassone.

Personalmente credo che sia meglio avere delle competenze tecnico-scientifiche forti, applicabili in molti ambiti diversi, piuttosto che avere una competenza di estrazione empirica che limiti però il campo di azione personale. Per quello che ho vissuto nella mia esperienza lavorativa, confrontandomi con persone che avevano un’istruzione di matrice anglosassone, sono convinto che il sistema accademico italiano conferisca una “marcia in più̀”. Considerando i fatti, penso che la conoscenza accademica approfondita di una materia conferisca una flessibilità̀ che una grande pratica non offre.

Inoltre, tengo a precisare che gli ingegneri italiani sono molto apprezzati all’estero e, mediamente, sono riconosciuti come professionisti molto bravi. Bisogna considerare che il mondo anglosassone è un sistema; anche le imprese stesse sono tarate in modo da accogliere dipendenti con quella specifica formazione accademica. La modifica del sistema universitario italiano implicherebbe il cambiamento di tutto il sistema lavorativo e, francamente, spero che non succeda.

Qual è la relazione tra il cantiere e le esigenze legate alla riduzione dell’inquinamento ambientale?

Questo è un altro tema molto importante che va in parallelo con quello della salute e sicurezza. La mutata sensibilità̀ verso l’ambiente fa sì che l’attenzione del pubblico sia diversa, di conseguenza i cantieri presentano una serie di accortezze. Infatti, oltre alla valutazione dell’impatto ambientale del progetto, prevista dalla legge, anche in fase di costruzione si prendono in considerazione una serie di criticità̀ nei confronti delle cosiddette matrici (acqua, suolo e animali).

Un esempio è dato dal fatto che, ad oggi, tutte le aree logistiche delle imprese non poggiano più̀ direttamente sul suolo, ma quest’ultimo viene precedentemente impermeabilizzato. In questo modo, tutti gli sversamenti che normalmente ci sono, come le perdite di olio minerale dai mezzi, non vanno a contaminare il suolo. L’obiettivo che cerchiamo di ottenere, applicando queste procedure, è quello di non danneggiare l’ambiente una volta che il progetto si è concluso. Tutta la valutazione dell’impatto del progetto e del cantiere sul contesto è ormai un aspetto che fa parte della progettazione, è imprescindibile.

 

Le poniamo ora una domanda che facciamo a tutti gli ospiti ed è ormai un argomento cardine dei nostri AIDICTalks: le soft skill. Quest’ultime rappresentano un tema di cui si parla poco all’università̀, ma sono molto richieste dalle aziende e sono molto importanti per la crescita di qualsiasi figura professionale. Qual è la sua opinione a riguardo?

Questo è un altro tema che possiamo definire un “buco nero”, a prescindere dal fatto che la formazione accademica sia italiana o anglosassone. È un aspetto nuovo che sta catalizzando l’attenzione negli ultimi anni.

Recentemente ho preso parte a un corso in cui hanno fatto vedere che, per arrivare alla scolarizzazione di un laureato, mediamente, le ore di studio tecnico necessarie sono circa quindicimila. Successivamente, hanno dimostrato che, a fronte di queste numerosissime ore, la parte relativa alle soft skill è pari a zero. Le soft skill rappresentano una serie di competenze che ti consentono di relazionarti con le persone e con il contesto in cui lavori. Tra queste rientrano: la capacità di comunicare, la capacità di negoziare e di gestire i conflitti oppure, a livello più̀ pratico, la capacità di saper parlare in pubblico.

Una di quelle che oggi è ritenuta più̀ importante è sicuramente l‘intelligenza emotiva, ovvero la capacità di comprendere le azioni e reazioni proprie e degli altri. Dico proprie perché́ penso che sia necessario partire da sé stessi per interpretare quello che succede intorno a noi. Ci tengo a precisare che queste competenze possono essere acquisite; esistono una serie di teorie che ci consentono, applicandoci, di passare delle famose “zero ore” a una buona applicazione delle soft skill. Non so se lo studio delle soft skill troverà̀ mai spazio nell’università̀, però, io credo che sia una cosa che dovrebbe partire molto prima, dalla scuola dell’obbligo.

 

Rimanendo sempre nell’ambito delle soft skill, quali sono quelle che hanno fatto la differenza nella sua carriera e che secondo lei l’hanno portata alla posizione che ricopre oggi?

Io credo che la soft skill di base sia saper ascoltare. Il nostro istinto, infatti, ci porta a reagire alla comunicazione dell’altro invece che ad agire. Gli inglesi la chiamano ego-suspension, cioè metti per un momento da parte te stesso e prova a capire quello che ti sta comunicando l’altra persona. In questo, noi italiani siamo pessimi, proprio per quella che è la nostra cultura.

La capacità di ascolto è molto utile perché́ ti consente di instaurare dei buoni rapporti con i colleghi. Infatti, rimanere in disaccordo è legittimo ma prendere tutto sul personale è un atteggiamento che conduce allo scontro e non ha soluzione.

 

Parlando con lei ci siamo accorti che è passato un anno dal nostro primo AIDICTalks. In questi mesi abbiamo trattato moltissime tematiche appartenenti ad ambiti diversi, partendo da quelli più̀ affini all’ingegneria chimica fino a toccare realtà̀ adiacenti come quelle del cantiere che, da oggi, faremo nostre. Ci piacerebbe concludere l’incontro chiedendole di raccontarci l’aneddoto più̀ peculiare dell’esperienza di cantiere.

Quello che vi sto per raccontare non è solo un aneddoto. ma è qualcosa che mi ripeto continuamente da quindici anni, da quando è capitato. Nella mia precedente esperienza lavorativa, in uno stabilimento di semiconduttori, mi occupavo di ingegneria di campo. In quell’occasione, ero andato a fare un sopralluogo insieme al responsabile della manutenzione meccanica, un tecnico di grande esperienza, e da giovane progettista quale ero avevo fatto una cosa un po’ “campata in aria”. Lui mi aveva portato sul campo per farmi vedere che quello che avevamo concepito in fase di progettazione creava problemi per la manutenzione. Dopo avermi spiegato le sue perplessità̀, mi disse questa frase che, a distanza di anni, continuo a ripetermi: “Ingegnè, quello che non c’è non si rompe”. Questa frase racchiude un invito alla semplicità̀ e a fare quello che davvero serve.

www.aidic.it

 

 

 

 

Incontri “ask&share” con i protagonisti

Gli incontri sono visibili in diretta sul sito aidic.it/webinar/aidictalks.php. Tutti gli aggiornamenti riguardanti gli AIDICTalks e le iniziative dell’associazione sono visibili sui nostri account social Facebook, Instagram e Linkedin.

Gli incontri “ask&share” iniziati a maggio 2020, sono stati con:

  • Giacomo Rispoli, executive presso NextChem e presidente del GdL AIDIC Transizione Energetica, sulla “transizione energetica e tecnologie waste-to-fuel”;
  • Luigi Nataloni, direttore presso CerealDocks, sui ruoli dell’ingegnere chimico nella “Food Industry”;
  • Andrea Rossi e Alessandra Nesi, rispettivamente ingegnere e HR presso Eli Lilly, sulla produzione di insulina, sui ruoli e sul processo di assunzione dell’ingegnere chimico nell’industria farmaceutica;
  • Maurizio Rovaglio, manager Siemens e presidente del GdL AIDIC Digitalizzazione, sulla “digitalizzazione nell’industria di processo”;
  • Pier Giuseppe Polla, direttore di Masol Continental Biofuel, su “Biofuels and Vegetable Oil Industry”;
  • Stefano Donzelli, Vice President Business Development @ Wood, su “Energy and Environmental markets”;
  • Anna Luisa Costa, capo del gruppo Environmental Nanotechnology and Nanosafety del CNR- ISTEC, sulle “Nanotecnologie in una nuova prospettiva ecosostenibile”;
  • Manuel Pianazzi, Site Head BASF, sul “ruolo dell’ingegnere chimico in BASF e l’innovazione del sito di Pontecchio Marconi”.

aidic.it/webinar/aidictalks.php.

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